Categoria: racconti

  • Una bomba a tempo

    “Ecco cosa sei. Sei una maledetta bomba a tempo, accidenti.”

    L’affermazione ad alta voce mi coglie impreparato in uno dei rari momenti in cui gli auricolari non emettono alcun suono. La ragazza siede di fronte a me, a fianco di una donna di mezza età che indossa il hijab, il velo islamico. I suoi lineamenti sono vagamente orientali, quindi potrebbero essere parenti, ma durante il tratto percorso insieme non si sono rivolte alcuna parola, dunque non so. Potrebbe avere una quindicina di anni, ed è totalmente sprofondata dalla musica che esce dai suoi auricolari; riemerge ogni tanto dalle profondità per controllare le notifiche dello smartphone, probabilmente dei messaggi in chat. E non serve sbirciare alle sue spalle per capire il tono dei messaggi, basta guardarla in volto: è come se indossasse una maschera di gomma con capacità espressive incredibili. Stupore, complicità, un bonario rimprovero, è tutto lì, tra i suoi muscoli facciali. Fortunamente gli auricolari riprendono il loro lavoro, così riesco a smettere di fissarla con insistenza, ché non ho voglia di rompere le balle a nessuno, e comincio a giocare di sponda, usando il riflesso del vetro. Una bomba a tempo, ha detto, voglio capirne di più. La vedo leggere il schermo dello smartphone ancora un po’, ogni tanto solleva gli occhi per vedere se qualcuno la fissa, poi di nuovo giù, e finalmente sposta il telefono sotto il maglione che ha, piegato, sulle gambe. Dal morbido della lana emerge un piccolo libro, aperto, e in mezzo alla V delle pagine un biglietto del treno, per segnalibro. Boooom, mistero svelato. Prende in mano il biglietto, e comincia a fissarlo, e lo fa per quattro minuti buoni, me lo ricordo perché nel frattempo mi sono ascoltato tutta Indifference dei Pearl Jam. Un guardare monoespressivo, questa volta, gli occhi fissi e molto stretti sulle scritte del biglietto, come se i caratteri perdessero coesione cominciando a formare chissà quale disegno. Dunque il biglietto le ha fatto tornare a mente un ricordo, non positivo direi, dalla reazione che ha avuto, e parecchio intenso. Sarà stato un viaggio intero, oppure solo il ritorno? Sarà stata una persona specifica, oppure il luogo e basta? Questo non sono riuscito a comprenderlo, purtroppo. Mollo il colpo e mi perdo nei miei pensieri, valutando per un attimo se possa essere curioso tirare fuori il mio innocuo, disinnescato Kindle.

  • The times they are a-changin’

    Si è presentato con un ticchettio prima lieve, poi leggero, e via via sempre più forte, fino a costringermi ad alzare il volume della televisione.
    Allora sono corso alla finestra sul terrazzino, quello dritto sul fiume. E l’ho trovato lì, forte, teso e freddo, segnale impossibile da ignorare, segno che la stagione è cambiata.
    Il vento si incanala lungo le massicciate, risalendo il corso del fiume, frusciando rumoroso tra le foglie delle canne.
    Queste sono piegate controcorrente, in direzione opposta al flusso denso e fangoso che scorre veloce verso il mare.
    E sono proprio questi due moti opposti a farmi più impressione, moti opposti che potrebbero annullarsi a vicenda e che invece si sommano e mi mandano in pappa il cervello.
    Benvenuto, autunno.

  • Detriti

    Lui è in piedi, alla finestra, perso nello scorrere dell’acqua.
    Un sorso di birra gelata, un tiro di fumo bollente, la bocca trasformata in un bong.
    Percepisce un cambiamento nel tremolio delle luci riflesse sulla superficie dell’acqua, e risale dal turbinio dei pensieri. È vero, il fiume ha cominciato a muoversi più velocemente, smuove e fa frusciare le canne sugli argini.
    E arrivano i primi detriti, trasportati dalla corrente.
    Lui sorride.
    Per fortuna nessuno lo vede, perché quel sorriso mette i brividi: le labbra arricciate, i denti digrignanti, è animalesco.
    Lui adesso ride, con una smorfia che gli deforma la faccia. Sente che sta per arrivare.
    Lui il suo nemico lo ha ucciso tanto tempo fa, lontano.
    Lo ha ucciso e lo ha scaraventato nel fiume.
    Ed ha aspettato.
    Ha atteso il momento giusto.
    Altri detriti galleggiano nell’acqua spumeggiante.
    Una massa più scura.
    Lui si concede una grossa risata, di petto, e chiude la finestra.

  • By demons be driven [*]

    [*] Play

    Ti vedo spesso uscire di casa.
    La mattina presto, quando mi affaccio alla finestra della cucina per fumare una sigaretta.
    Oppure alla sera, quando apro la finestra del bagno di sopra per far uscire il vapore della doccia.
    Non che ti tenga d’occhio, è chiaro, solo evidentemente abbiamo gli orari sincronizzati.
    Apri la porta di casa, tiri su la zip del giubbotto leggero, porti la mano destra a quello che potrebbe essere un cronometro da polso, sulla sinistra, ti chiudi la porta alle spalle, una occhiata da una parte e poi dall’altra, e cominci a correre in direzione del ponte.
    Ti stimo un sacco, sai? La dedizione, la costanza, quelle cose lì. E nemmeno so chi sei, come ti chiami.
    Pensavo quasi di seguirti, un giorno, giusto per farmi una idea dei percorsi qui in zona, per non dico correre, ma almeno passeggiare un po’.
    Poi però niente, ho lasciato stare, e continuato a guardarti da una delle due finestre.
    L’altra sera, per caso, ti ho incrociato.
    Avevo parcheggiato l’auto in un posto diverso dal solito, vicino ai bidoni, ne approfittavo per raccogliere e buttare via qualche bottiglia vuota, quando tu sei passato, correndo.
    Non mi hai visto. Ma io sì.
    Avevi gli occhi iniettati di sangue, i muscoli del viso contratti in una smorfia di cattiveria.
    Ora, io non so perché corri, non so se lo fai per mantenerti in forma, o per scaricare i nervi.
    Voglio dirti però che se lo fai per sfuggire dai tuoi demoni, allora hai perso.
    I demoni ti hanno raggiunto, ce li hai dentro.

  • È che quando il gioco si fa lungo, anche i duri si stancano.

    “Cosa vuoi da me? Cosa puoi darmi?”

    “Cosa vuoi prendere?”, ti risponderei. Perché io non so cosa saprei staccare da me per darlo via, non so cosa vorrei incartare con filo prezioso e nastro resistente per regalarlo a te, non so cosa strapperei dalla nuda carne scegliendo tra altre cicatrici, altre ferite, per gettare via brandelli insanguinati di me.

    Non ti chiederei di staccare nulla, ché non sei una bambola snodabile, e nemmeno un animale, quindi neanche tagli scelti. Non mi intendo di macelleria, tanto meno di giocattoli, e allora ti prenderei intera, così, in blocco. Ché poi chi me lo assicura che quella parte lì – la vedi, lì, quella che adesso fa quell’ombra curiosa? – poi, presa come pezzo, continui ad essere così bella?

    Ma io non so se sono bella perché mi guardi con questi occhi che non mi lasciano un istante – e lo so che non mi lasciano nemmeno mentre dormo, nemmeno mentre dormi – o se sarei bella lo stesso anche se non mi guardassi più o se potrei essere più bella ancora se sapessi guardarmi da sola, senza dover passare per mille occhi altrui, fra cui i tuoi.

    Nemmeno io so se sei bella, ai tuoi occhi, o agli occhi di tutti quelli che hanno la fortuna di vederti. Egoisticamente, nemmeno mi importa. Io so che sei bella per me. Ti guardo, moltissimo, e ascolto la chimica del mio corpo che ti assimila, sento la tua immagine capovolta sulla retina che viene scomposta in segnali elettrici, e ogni neurone coinvolto nel processo lo sento scuotersi percorso da un brivido in più. Voglio farci un regalo, prima o poi, mi faccio impiantare un qualcosa, lì, sul nervo ottico, così quando ti chiederai “Ma sarò davvero bella?” potrai collegartici e dire “Cristo, sì”.

    E anche quando avessi capito come mi vedono gli altri, e mi fossi convinta di ciò che appaio, come potrò imparare a capire quello che c’è dentro? come potrei spiegarlo a te che mi guardi, se non spaccandomi in due?

    No, ti sbagli, il mio sguardo non spacca, non è distruttivo. Ti attraversa, certo, ti legge le parole scritte in piccolo nei capillari, tra le righe dei fasci muscolari, si accorda con le tue contrazioni involontarie. Ma non spacca. È piuttosto come una corda di violino, legata ad un peso, e tu sei il cubetto di ghiaccio al quale è appoggiata, e la pressione fa tutto il resto, la corda man mano ti attraversa, ma tu ne esci, comunque, ricomposta.

    E tu? in tutto questo, tu?

    È una accusa? O ce la leggo io, ché ho una coda di paglia ormai pari ad una scopa di saggina? io sono qui, con il mio essere sbagliato sul lungo termine, con l’anima e il corpo nel noi, consapevole dei rischi che corro ma impossibilitato ad agire diversamente. Sono biasimabile, per questa cosa?

    Non lo sei, non è una accusa, o un rimprovero: le mie parole che ti sei visto arrivare addosso come coltelli affilati che si conficcano ad un millimetro dalla tua pelle a disegnare il contorno di te, se le guardi di profilo e non di petto vedrai che sono superfici riflettenti che ti offrivo perché ti potessi guardare, perché per una volta tutto il tuo cuore, il tuo sangue, il tuo sguardo sincero e trasparente, la forza incrollabile del tuo abbraccio fossero rivolti a te stesso per comprendere tu chi sei. Non cosa vuoi, ma chi è questa persona che vuole, che ha desideri e ardori e passioni.

    Va bene, uso le lame senza temerne il filo, e mi osservo nel profilo. Vedo tanti me, noto tratti comuni, ma ognuno dei me riflessi presenta delle differenze, in funzione della prospettiva offertami dall’inclinazione del coltello. Ne deduco che io sono in funzione di chi mi osserva, di chi è, di come lo fa? È possibile che abbia un nucleo base, il mio vero io, una sorta di DNA con all’interno le caratteristiche principali, e che questo DNA si vada poi a combinare con quello della persona che incontro, mutandomi di volta in volta?

    È così. E la persona che incontri muterà al contatto con te, muterà per le tue assenze: si modellerà e ti modellerà sugli spazi vuoti e pieni, ma allo stesso tempo ti opporrà spigoli e muri. Non è colpa di nessuno se non ci si incastra, nessuno ha un merito speciale, non vi è spazio per gli “avrei potuto”, non c’è perdono per gli “avrei voluto”, non c’è rimedio agli “avrei dovuto”.

    (Questo post è stato scritto a quattro mani, alcuni mesi fa, con Batchiara.)

  • Promemoria

    Se sei uno del posto, allora ti sarà di sicuro capitato di incrociare Garbino a passeggio con una pianta in mano, nelle giornate calde e poco ventose. Se ti capita di vederlo, con la pianta in mano, in direzione della vecchia torre, seguilo per un po’. Sta andando verso il solito bar, a leggere i giornali, a bere un caffè, una aranciata amara, e poi un’altra ancora – sempre in questo ordine. Se hai tenuto botta abbastanza, e gli sei vicino il giusto, ad un certo punto sentirai il bip-bip-bip di una sveglia, lo vedrai controllare il suo vecchio Casio a cristalli liquidi, e si alzerà per chiedere un bicchiere d’acqua al barista. Poi comincerà a versarla, pian piano, come fossero piccoli sorsi, saggiando la terra volta per volta. Se gli sei molto vicino, ascolta con attenzione, “Hai visto, mamma, non mi dimentico, acqua una volta al giorno, la terra ben umida, aria e tanta luce, proprio come avevi detto tu”.

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  • Garbino

    Garbino è il soprannome di questo tizio, un po’ matto, e lo chiamano così perché ha la tendenza a sbroccare. Garbino lo ha scoperto non molto tempo fa, di essere matto, perché tutti gli dicevano di sì, è lui “Mannò, non sono matto!” e poi ha letto da qualche parte che i matti non sanno di esserlo, e allora sì, ha capito che è matto. Parla spesso da solo, ha questo vecchio marsupio al quale è affezionato e non vuole buttare, nonostante stia assieme con lo scotch, e che secondo lui lo fa figo. Quando tira il garbino, la gente gli dice “Va la, Garbino, è meglio se stai al riparo, ché altrimenti diventi ancora più matto di quello che non sei già”, e giù a ridere. Lui allora se ne va, brontolando tra sé, scocciato, perché gli altri non capiscono che a lui piace, quel vento caldo, gli piace sentire i granelli di sabbia che gli pizzicano la pelle, gli piace quel vento perché è l’unica cosa che riesce a spazzargli via tutti i pensieri dalla testa.

  • In dreams

    Apro gli occhi con la sgradevole sensazione di essere impossibilitato a muovermi.
    Provo, e le gambe, le braccia e la testa sono come bloccate su una superficie di gomma semirigida. Mani e piedi riesco a muoverli, ma questo non mi consola, anzi.
    Qualcosa mi ostruisce la bocca, consentendomi comunque di respirare.
    Chino a fatica la testa verso il basso, e mi intuisco steso su un lettino, ancorato da fasce, coperto da un lenzuolo dalla vita in giù; sento arrivare la prima, grossa, ondata di panico.
    Percepisco e intravedo un ambiente asettico, freddo come le luci al neon che lo illuminano, macchinari, tubi, LED che si accendono e spengono, carrelli con attrezzi ben appoggiati in ordine: sono in una specie di sala operatoria.
    Il panico è oramai una piena di fiume; mi dimeno, inutilmente, cerco di urlare, ma escono solo flebili mugolii. Non proprio inutilmente, perché una figura entra da sinistra nel mio spazio visivo.
    Non è riconoscibile, ha il capo coperto da un qualcosa di tessuto, una grossa maschera con lenti opache davanti a occhi e naso, una mascherina verde per la bocca, e quello che può essere un camice che parte dal collo e arriva dove io non riesco a vedere.
    Si avvicina lentamente, e mentre mi sforzo di capire chi è, una luce abbagliante si accende sopra il mio volto, vanificando ogni mio sforzo. L’unico dettaglio nuovo che percepisco è lo strumento di metallo, lungo e scintillante, che tiene in mano.
    Perdo il controllo e urlo, senza riuscire ad emettere un suono.
    La figura si avvicina, mi appoggia la mano avvolta nel guanto di lattice sul torace, e noto il tessuto della mascherina deformarsi a causa del sorriso spuntato sulla bocca che non vedo, come a volermi tranquillizzare. Come un sussurro impercettibile, “Non ti farò male”. E alza lo strumento che ha in mano.
    Non è un bisturi, ma la lama c’è tutta. La vedo scintillare, una lama senza fascino, dritta, fatta con uno scopo unico: tagliare.
    E comincia ad usarla, senza preavviso.
    Io urlo di nuovo, un urlo lungo e silenzioso, in attesa di sentire arrivare l’ondata di dolore.
    Quando la gola brucia, smetto, ché il dolore non è arrivato, nonostante la figura stia proseguendo con il suo lavoro di incisione.
    Sento la lama scendere nella carne, sempre più giù, la sento curvare per percorrere lo spazio vuoto tra due costole, sento il sangue scorrere lungo il fianco, la sento emergere dal taglio, sento il rumore di lacerazione quando le mani allargano il taglio, sento la pressione sulle costole, sento il crack delle stesse quando la pressione è diventata sufficiente, ma no, come aveva detto la figura che si sta accanendo su di me, non sento dolore.
    Il lavoro procede febbrile, tra crack e incisioni, io e la figura oramai verniciati del mio rosso cupo, e finalmente termina, con il rumore della lama appoggiata a qualche superficie metallica.
    Io, che avevo distolto lo sguardo, spettatore/protagonista insensibile di quello scempio, riabbasso gli occhi, e vedo la figura con un cuore, il mio cuore, ancora sprizzante sangue, in mano.
    Il sorriso deforma nuovamente la mascherina, e un nuovo sussurro “Questo lo tengo io, a te non serve”.
    Poi solleva la maschera opaca, e riesco così a vedere gli occhi della figura, e la riconosco immediatamente. Con dei mugugni le faccio capire che voglio parlare, e sento la bocca finalmente libera.
    “Cretina che non sei altro, brutta testa di cazzo, è sempre stato tuo, c’era bisogno di fare tutto questo casino?”

    Poi mi sono svegliato.
    E magari uno si chiede per quale motivo alle sette della mattina abbia già voglia di dare fuoco a chiunque.

  • My love is winter [*]

    Waves

    [*]

    E alla fine il freddo è arrivato anche a me. Mi ha trovato un lunedì mattina di fine ottobre, mostrandosi come vento leggero ma pungente, trapassando la t-shirt troppo sottile, scavalcando i calzini corti e risalendo dentro i jeans. Lo sento correre sull’acqua, lo vedo increspare leggermente quel blu scuro, poche decine di centimetri al di sotto dei miei piedi. Tiro la zip del giubbotto fin sotto al collo, poi, le mani infilate nelle tasche, mi giro e mi faccio spingere contro una nuova settimana. Benvenuto, freddo.