L’uomo sale sul bus, nervoso e a disagio. Cerca sempre di evitare i luoghi affollati, in cui potrebbe trovarsi a stretto contatto con la gente. Oggi però non gli è stato possibile, la macchina fermata dal provvedimento antismog, la bici idem, ma a causa del maltempo. Non le odia, le persone, però sa che più sono, più rischia di stare male. Un dono, qualcuno l’ha chiamato; «Certo, come no» risponde sempre lui, «prova a conviverci. Ogni santo giorno.». Lui percepisce le emozioni degli altri. Ma non solo le percepisce, arriva a condividerle suo malgrado. E il contatto fisico con qualcuno gliene proietta in testa il pensiero; è uno stress che spesso non è in grado di gestire. E dunque è sul bus. Si accorge che la gente lo osserva a causa del suo aspetto: bianco da sembrare malato, un lungo impermeabile, i guanti per limitare i contatti accidentali. E lui, suo malgrado, comincia a sentire, e viene attraversato da ondate emotive improvvise che gli fanno stringere gli occhi fino ad una fessura, come di fronte a lampi di luce, un inutile gesto istintivo di difesa. Ansia, rabbia, un ragazzo preoccupato per il proprio andamento scolastico, una donna anziana pensa rassegnata al momento, vicino, nel quale raggiungerà il marito deceduto da anni, e apatia, invidia, tutto questo gli entra nella testa man mano che avanza alla ricerca di un posto libero. All’improvviso, in questo mare di negatività, un’isola di tranquillità. Cerca di individuare la persona, la fonte, ma inutilmente; poi, nascosto da due ragazzi, appare un posto libero, vicino al vetro, e si accorge che le ondate di sensazioni positive arrivano proprio da lì. Raggiunge il seggiolino, si siede, e chiude gli occhi gustandosi il forte residuo di calma e bei pensieri lasciato lì da chissà chi. Percepisce amore, desiderio, voglia di scoprire e ripartire, di una vita nuova. Sul volto gli si forma un sorriso compiaciuto, e continuando a tenere gli occhi chiusi si sfila un guanto, appoggia la mano nuda al vetro, dove probabilmente c’era appoggiata la testa della persona, come per poter assorbire il più possibile quelle sensazioni.
Categoria: racconti
Imprecisione
“E queste erano le previsioni per domani”.
Dice sedici giugno duemilanovantanove, chissà se sarà vero. Ultimamente sembra azzeccarci, la previsione, magari è la volta buona che riescono a correggere adeguatamente il modello matematico. Se sapessi come aiutarli, quelli del reparto software, lo farei, ma non è il mio campo, io mi occupo della struttura che ci ospita. Semplicemente mi limito a cogliere nella frase “le previsioni del tempo”, una certa ironia, senza brontolare o lasciarmi andare a critiche esasperate. D’altra parte lo sapevamo, ci avevano avvisato che sarebbero potuti esserci dei rischi, e il contratto di volontari parlava chiaro. Certo è che questo esito nessuno l’aveva previsto, considerati i risultati positivi dei primi esperimenti. Il gruppo dei fisici ci si sta ancora scervellando, e sembra che la causa più plausibile sia la differenza di volume tra i solidi impiegati per i test e la struttura dove stiamo ora: un corpo più grande avrebbe introdotto nel sistema alcune variabili che, a livello computazionale, hanno reso le date di arrivo estremamente imprecise. E ci troviamo dunque a spasso in questa specie di tunnel temporale, sballottati tra date possibili, sperando di riuscire ad indovinare quella giusta che ci permetterebbe di tornare a casa. Dice sedici giugno duemilanovantanove; chissà se ci sarà il sole oppure no. Mi ricordo i discorsi con mio padre, quando il tempo da indovinare era quello meteorologico, ricordo che mi diceva sempre che le previsioni del tempo erano potenzialmente imprecise, per colpa delle’elevato numero di variabili in gioco. Ora è solo cambiato il contesto, il resto è rimasto uguale.Sull’uscio
Un pling metallico segnala l’arrivo al piano scelto. La salita è stata sufficientemente lunga da permettergli un controllo visivo nello specchio all’interno della cabina: occhi scavati dalla notte insonne, arrossati dal lungo viaggio, capelli e barba in leggero disordine. Niente di preoccupante, questo è lui. Le porte si aprono, raccoglie lo zaino ed esce sul pianerottolo. Non accende subito la luce, e usa il buio per capire meglio quale delle porte è socchiusa, cercando uno spiraglio luminoso. Eccolo, la porta è la terza a destra. Ora accende la luce e mentre si avvicina la porta si apre, e lei è lì, in piedi, in attesa. Lui si avvicina, appoggia lo zaino a terra, e avanza ancora guardandola fissa negli occhi, e poi ancora un passo, senza mai distogliere lo sguardo, e ancora uno, finché i corpi non entrano in contatto e le labbra si uniscono in un bacio che sembrava non dover arrivare mai. Poi le labbra si staccano, e con un passo indietro anche i corpi, e si fissano di nuovo. «Bene, penso che ora ci si possa anche presentare. Piacere, Massimiliano», e con una risata lui prende lo zaino ed entra, e lei si chiude la porta alle spalle.
Scritto su una panchina
L’uomo si appresta ad affrontare l’ennesima curva, sperando sia finalmente l’ultima; è ansimante e accaldato nonostante il vento teso e fresco. La sua speranza diventa realtà, e oltre la curva si apre lo spiazzo che indica il culmine del giro. Lo immagina pieno di gente e di biciclette e sudore e lacrime, ché queste cose viaggiano spesso assieme. Poi trova una panchina e ci si mette a cavalcioni per riposarsi prima della discesa. E comincia a leggere le cose scritte e incise, perché sa che una panchina piazzata così fuori mano è il foglio bianco perfetto per lasciare pensieri che chissà chi li leggerà mai. E trova questo, scritto a pennarello:
“Sono qui, da solo, in cima a questa salita, e ti penso. Dovresti vedere che bello che è, nessun altro a parte il vento, che fa correre le nuvole e muovere piano le cime degli alberi. Ti vorrei qua, e vorrei scoparti, piano, al ritmo delle fronde, con calma, senza fretta, finché il vento non si calma e rimane ad ascoltarci.”
L’uomo solleva la testa, si accende una sigaretta, guarda la vallata sotto, con gli alberi che si muovono, e poi il cielo, con le nuvole che corrono. E pensa che sarebbe davvero bello.
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Prova di coraggio
Il ragazzino è in piedi, in alto sulla roccia. Si sistema il costume, un paio di boxer leggermente oversize, lo tira su da dietro e rinnova il nodo in vita. Poi, le mani sui fianchi e lo sguardo verso il mare aperto, attende il momento propizio, l’attimo perfetto in cui vento, acqua, cuore e cervello sono in sincronia. Eccolo. Flette le gambe, sposta il baricentro in avanti e le braccia indietro per controllare lo spostamento. Poi però qualcosa va storto. La perfezione del momento è interrotta da un rumore proveniente dalla sua destra, e da dietro la roccia appare una piccola imbarcazione. Immediatamente bacino e braccia invertono il loro movimento, e dopo qualche oscillazione il ragazzino si ferma e si siede. Pausa, cinque minuti buoni, poi daccapo, stessi movimenti, stesso istante da ricercare. Eccolo. La flessione è più profonda questa volta, i piedi si staccano dalla roccia e il corpo percorre in pochi secondi i cinque o sei metri che lo separano dall’acqua. Splash, molti spruzzi, ma il ragazzino non bada di certo alla forma. Anche questa volta è andata, e ora c’è un pieno di adrenalina da smaltire.
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La vibrazione
Lo spettacolo è già cominciato, e lui comincia a sentire la tensione crescere. Se lo aspettava, ma non così tanto, così tanto da non riuscire a tenere ferma la macchina fotografica. Gli occhi cominciano a inumidirsi e bruciare, i suoi e quelli di chi ha vicino, si vede benissimo. Il guardarsi attorno lo fa distrarre un attimo dal canto delle signore che sono sul palco, e si ritrova a guardare verso il fondo del cortile del circolo, prima verso il barettino, poi a sinistra verso l’entrata, poi di nuovo a destra, dove i posti che prima erano vuoti ora sono occupati. La cerca con lo sguardo, cerca il suo viso, o anche solo i suoi capelli, un qualche dettaglio che gli faccia capire che lei, nonostante tutto, è lì, è riuscita a venire giù. Ma nulla, lei non c’è. D’altra parte, probabilmente gli avrebbe detto qualcosa, nel caso. Probabilmente. E allora torna a girarsi verso il coro. A metà della rotazione della testa coglie una leggera vibrazione sulla coscia, prende fuori il telefono, guarda il display, e sorride. Sorride, perché si ricorda che lei, in fondo, è lì assieme lui. E allora, finalmente, si lascia andare alle emozioni che arrivano dal palco.
Il Regalo di compleanno
Ti lascio con il mio regalo di compleanno. Ieri ho pensato che avrei avuto voglia di scriverlo a te.
“Ieri ho fatto un giro in bici. Su per San Mamolo e ia di Roncrio fino a quando la salita di Monte Donato non mi toglie il fiato. La città era deserta, il cielo era azzurrissimo, le nuvole bianchissime, il sole mi baciava e io contraccambiavo con gioia nonostante fosse fine luglio. San Mamolo era silenziosissima e poco prima della baracchina dei gelati un pianoforte suonava e spandeva nell’aria una specie di magia. Ci sono passata attraverso e non ho potuto non girarmi a guardare da quale finestra uscisse la musica, chi suona, chissaperchè. Non è che uno tiene il piano sul balcone… Poco oltre la città lascia spazio ad un paesaggio completamente differente. La strada si stringe, la vegetazione diventa foltissima e piena di rumori di uccellini, cicale, acqua che scorre… e uno scoiattolo marrone, bellissimo piccolo e perfetto, è fermo su di un muretto con una foglia in bocca. Una meraviglia ferma lì sulle zampe posteriori, con le zampette si sta masticando una foglia e mi fissa. Sì mi fissa. Io ipnotizzata mi fermo lentamente, mi avvicino. Nella mia testa continuo a ripetere… non te ne andare… non te ne andare… Ma dal suo punto di vista non deve essere stato un incontro altrettanto eccezionale perché dopo qualche secondo mi ha sventolato il suo codone davanti ed è scomparso fra le fronde.”
Baci,
FedeIl Regalo di compleanno, bello e inaspettato. Grazie, Fede, un bacio a te.
E’ come svegliarsi in campeggio a settembre
Stamattina piove. Mi sono svegliato con il rumore delle gocce nelle orecchie, l’odore di terra bagnata nel naso e quel fresco sulla pelle che verso le 6 ti fa cercare, ancora mezzo addormentato, il lenzuolo che si trova stropicciato ai piedi del letto. Ho subito associato queste sensazioni ad un bel viaggio settembrino in tenda di n-mila anni fa. Anche la successiva doccia, il godimento di quel primo getto bollente che scalda la pelle infreddolita, e la corsa all’accappatoio alla fine, per disperdere il meno possibile il calore residuo. Ora mi piacerebbe proseguire come quella volta, con una colazione sul tavolo in giardino e poi una visita alle bellezze croate; ma chiaramente non è possibile, allora cerco qualcosa di simile a quell’accappatoio, che non lasci disperdere queste belle sensazioni.