Tag: racconti

  • Le sorcier

    L’uomo osserva il suo villaggio, soddisfatto della giornata, il corpo pesantemente aggrappato al bastone simbolo del suo ruolo, del suo potere. Lui è lo stregone, l’uomo della medicina, ha il compito di salvaguardare il villaggio e chi vi abita, e svolge questo compito con il massimo dell’impegno. Le giornate sono faticose, come quella che sta volgendo al termine, ma il senso di soddisfazione che prova nel guarire qualcuno o nel predire qualcosa di positivo lenisce ogni sofferenza. E così si sente ora, soddisfatto, sulla collinetta che sovrasta il villaggio, di spalle al grande fiume e al sole che lentamente tramonta. Appoggiato al bastone, chiude gli occhi e si lascia andare agli altri sensi. Segue la goccia di sudore che comincia a scendergli lungo la schiena, che dalla scapola si avvicina alla spina dorsale prendendo velocità. Sente lo scorrere delle acque alla sua destra, poco più in la, e una leggera brezza porta alle sue narici il salmastro del mare, lontano, alla foce del grande fiume. Un movimento quasi involontario porta la sua lingua sulle labbra, e sente il gusto salato del sudore misto a quello più acre della polvere, depositata su tutto in attesa della stagione delle piogge. Improvvisamente le sensazioni si attenuano in favore dell’udito: un rumore basso, come una vibrazione, entra nel suo campo uditivo distraendolo da tutto il resto. E’ un rumore strano, che cresce, si avvicina, che lo lascia perplesso, perché gli sembra di non averlo mai sentito ma in cuor suo sa di conoscerlo. Il villaggio sparisce dalla sua vista, si dissolve, lasciando il posto ad un campo dissodato, a case coloniche, a filari di alberi da frutto. Il sostegno al suo corpo rimane, solo che non è un bastone nodoso ma un liscio manico di vanga. Solo le sensazioni rimangono, il sudore, la polvere, il corpo stanco; e quel rumore, che oramai l’ha raggiunto e sorpassato, prodotto da un’automobile, lascia posto al rumore del fiume che scorre oltre il terrapieno. Con la manica della camicia sdrucita si asciuga la fronte e riprende a liberare il campo dalle pietre più grosse e a sognare il Senegal, la sua terra.

    [racconto ispirato a questo]

  • L’ultima sigaretta

    La vecchia signora si trascina lenta lungo il muretto di fronte all’albergo, la mano destra che scorre il corrimano, la sinistra che stringe con attenzione la sigaretta. E’ tardi e fa freddo, ma la vecchia signora non se ne preoccupa, vestita adeguatamente e con le spalle coperte da uno scialle bianco; deve compiere il suo rito, l’ultima sigaretta prima di coricarsi. Le abitudini, si sa, sono dure a morire, soprattutto quelle brutte, e fuma quell’ultima sigaretta ormai da cinque anni, data nella quale avrebbe dovuto smettere, volontariamente o meno; poi, però, i giorni sono diventati settimane, poi mesi, poi ancora anni, e lei ha scelto di continuare per la sua strada. Ha preso l’abitudine di dedicare quei tiri ai cari che sono venuti a mancare negli anni, amici, parenti, mariti, a rotazione, uno per sera. Portato a termine il rito getta il mozzicone sulla strada, a spegnersi da solo, non ci pensa nemmeno ad alzare un piede per pestarlo, che le gambe sono diventate troppo pesanti. Apostrofando con un “Beata gioventù” il ragazzo con la felpa rossa che le passa davanti in bici si appresta ad andare verso l’entrata dell’albergo, felice di aver chiuso un’altra giornata. Domani si vedrà, pensa, magari questa è stata davvero l’ultima sigaretta.

  • Un lavoro come un altro

    Lui fa un lavoro come tanti, come il mio, come il tuo, niente di speciale: obiettivi da raggiungere, raggiungerli nei tempi e nei modi prefissati. E’ meticoloso, nel suo lavoro, e a detta dei colleghi è veramente bravo; pianifica, incrocia dati, non si fa mai trovare impreparato di fronte ad un imprevisto. E il capo lo sa: gli assegna i lavori più delicati, un pò perché è certo del risultato, un pò perché sotto sotto ci gode, nel vederlo dipanare problemi. Il suo capo, già. E’ un pessimo personaggio, lunatico, antipatico, imprevedibile, uno stronzo, a detta di molti. E lui lo sa, ma non se ne da peso, e pensa al suo attuale obiettivo, e a come liberarsene in fretta: gli altri lo ignorano, nessuno lo immagina, ma a lui, il suo lavoro, proprio non piace. Lo svolge al meglio perché deve farlo, non certo perché ne sia soddisfatto; a lui piacerebbe un lavoro più tranquillo, in uno dei reparti amministrativi, ma purtroppo non è stato possibile scegliere. Ora deve portare a termine l’ultima commessa: una occhiata al terminale per l’ennesimo controllo, e l’ennesima conferma che tutte le variabili sono state verificate, e il rischio di errore è bassissimo. Nonostante, come si è detto, desideri fare altro, non può non negare a se stesso la soddisfazione nel vedere che, ancora una volta, la previsione statistica di fallimento è inferiore al punto percentuale. E’ maledettamente bravo, punto e basta. Chiude il terminale, e si appresta a andare a raccogliere il frutto della sua pianificazione. Il vestito è nero, stirato alla perfezione, e gli occhiali scuri lo riparano dal sole, in quel giorno di metà primavera. Si materializza non visto in un vicolo vicino al centro, e con passo leggero si avvicina ad una colonna del portico, in via Indipendenza. Getta uno sguardo in giro, in attesa di veder apparire i propri obiettivi. Eccoli, avvicinarsi ignari, uno a piedi, l’altro in scooter; infila una mano all’interno della giacca, e tira fuori il suo taccuino di pelle nera, il nome della ditta in caratteri dorati, “Morte Spa”, e la sua penna, un bagliore solare metallico nel tardo pomeriggio, pronto a segnare un paio di righe. Qualche secondo di attesa, e un altro successo.

  • Il taccuino

    Paolo è giunto al termine della sua giornata lavorativa, l’ultima di questa pesante settimana. Fa l’architetto software in una società di Bologna. E’ contento del suo lavoro, ma questi cinque giorni appena trascorsi sono stati impegnativi, e chiude quindi il suo laptop con un gesto deciso e soddisfatto, riponendolo nella borsa. E’ un tardo pomeriggio di un venerdì soleggiato di maggio, e il viaggio di ritorno verso casa a cavallo del suo scooter è l’incipit perfetto per un weekend di riposo e tranquillità. Si infila il casco, fa rientrare il cavalletto e parte, la borsa con il laptop saldamente incastrata tra i polpacci.

    Giorgio cammina a passo svelto sotto i portici, senza vedere le persone che incrocia e contro le quali va quasi a sbattere. E’ sovrappensiero, distaccato dal resto del mondo. Frequenta l’ultimo anno del liceo, con buoni profitti, e la facilità con la quale apprende gli ha permesso di ritagliarsi del tempo libero per fare qualche lavoretto qua e la. E’ eccitato, oggi finalmente potrà dare fondo ai suoi risparmi per soddisfare il suo desiderio: la nuova chitarra elettrica, la Gibson SG nera, la stessa usata dal suo idolo Angus Young.

    Il traffico è intenso, nervoso e caotico come ogni venerdì, ma grazie allo scooter Paolo si muove agile e senza impedimenti. Si lascia alle spalle macchine su macchine, e sembra correre, ma è una questione di riferimenti, non ha nessuna fretta e mostra la cosa a tutti sorridendo. Giù dal ponte della ferrovia, imbocca via Indipendenza, attento ai pedoni e al lastricato di cubetti di porfido, ultimo piccolo fastidio prima dell’arrivo a casa.

    Giorgio è separato solo da un paio di incroci dal suo oggetto dei desideri. Si accorge di camminare troppo veloce, sente delle gocce di sudore scendere lungo la schiena, e decide che sì, può rallentare. Tanto la chitarra non gliela portano via, ha avvisato il negozio una mezzora prima, giusto per essere sicuro. Con più calma, prende coscienza della gente attorno: ragazze, uomini in giacca e cravatta, donne con le borse della spesa.

    Il rientro procede a bassa velocità. Un occhio ai lati, per evitare di investire qualche pedone intento in attraversamenti creativi, e uno alle buche, altrettanto pericolose. Un colpetto di freno in prossimità delle striscie, e uno al gas dopo averle superate. All’improvviso, nel pieno dell’accelerata, un bagliore metallico lo distrae, e centra una buca in pieno. Riesce quasi a mantenere il controllo dello scooter, ma l’urto gli ha fatto torcere il polso, ed accelera involontariamente; Paolo non si accorge che la borsa ai suoi piedi si è spostata, e ora la tracolla sporge verso il suolo, quasi a strisciare.

    “Ci siamo”, pensa, “Devo solo attraversare la strada”. Sente già il corpo di legno solido tra le sue mani, e il suono caratteristico Gibson nelle orecchie. Si avvicina alle strisce pedonali, guarda a destra e a sinistra: da una parte è libero, dall’altra arriva uno scooter, ma è lontano. Comincia ad attraversare, facendo scudo con la mano per proteggere gli occhi dal sole. Pensa che i portici siano una cosa fantastica, ti riparano sia dal sole che dalla pioggia.

    Ripresosi dall’urto e dalla sbandata, Paolo aggiusta la traiettoria per evitare un’altra buca: così facendo però, passa sopra ad un cubetto di porfido sollevato rispetto agli altri, in prossimità del bordo. La tracolla si aggancia al cubetto, più alto ma ben saldo, strattonandolo in malo modo.

    Giorgio è quasi verso il centro della strada, quando sente un rumore d’urto, e fa per girarsi, per cercarne la causa. Intravede lo scooter di prima che avanza sbandando, ma viene distratto da un bagliore metallico, e sposta lo sguardo, incuriosito.

    Tutto accade in pochi istanti. Paolo si sbilancia e cade, il piede agganciato alla borsa, e cerca di restare aggrappato al mezzo, ma non ce la fa, ottenendo solo una ulteriore rotazione della manopola del gas. Una capriola a terra, e finisce violentemente con il viso contro un paletto della fermata del bus. Lo scooter, oramai senza controllo, e imbizzarito dal colpo di gas, si raddrizza e prosegue nella sua corsa. Giorgio non ha nemmeno il tempo per girarsi nuovamente in direzione del rumore che viene colpito duramente alle spalle, rovinando al suolo e sbattendo anche lui il capo sul selciato. I passanti che hanno assistito alla tragedia intervengono immediatamente, chi verificando le condizioni dei due, chi chiamando ambulanza e polizia, ma è chiaro a tutti che ormai non c’è nulla da fare. I mezzi di soccorso intervengono in pochissimo tempo, a sirene spiegate, ma non possono fare altro che constatare i decessi e fare i rilievi per determinare la dinamica dell’incidente.

    Nella confusione che si è venuta a creare, tra sirene di ambulanze e polizia, nessuno nota il signore distinto con il completo nero e gli occhiali uguale, che estrae dalla giacca un taccuino, con una penna metallica elimina due righe dal foglio, e se ne va.

  • Abitudinario

    Mi avvicino al bancone, verso la cassa, e vedo che la fila è piuttosto lunga. Non ci voleva, che come al solito vado di fretta. Sbuffando mi metto in coda, in attesa del mio turno. Meno una. Meno due. Nessuna mail da leggere nell’attesa, e distrattamente butto l’occhio al di la del vetro. La vedo. E’ occupata nel suo lavoro, a testa bassa, si muove di qua e di la. Poi alza la testa, si guarda attorno, e un attimo prima di riabbassarla mi vede. Un sorriso con gli occhi per dire “Ciao”, un’altro sguardo come a chiedere “Il solito?”, un mio cenno con la testa come conferma. Le altre persone davanti a me, una per una, pagano, poi tocca a me. Prendo lo scontrino, vado verso il ripiano di vetro, e lo baratto con la mia piada calda. A volte è bello essere abitudinari.

  • L’angolino

    L’uomo arriva con la macchina, nera e lucida, e parcheggia allineandosi alla banchina. Spegne l’auto, lasciando acceso il cruscotto e la radio, in verità senza sapere quale canzone stia passando in quel momento. Ha ormai la testa altrove, è arrivato nel suo angolino, e si isola dal resto del mondo: fermo, lo sguardo diritto verso l’acqua, quasi in trance. Percepisce distrattamente la presenza delle altre persone: due donne che camminano velocemente, una coppia di anziani a braccetto, un ragazzo intento a fotografare i riflessi fiochi dei lampioni sull’acqua scura. Una breve serie di gesti meccanici, e la brace della sigaretta va ad unirsi, a tratti, alle lampadine del cruscotto. L’uomo ha un volto grosso e solcato dalle rughe, folti capelli bianchi, e un paio di altrettanto folti e bianchi baffi, che potrebbero tradire i suoi trascorsi giovanili. Lo sguardo ancora perso nell’acqua del canale, non ride, ma ha un viso sereno, rilassato; e non potrebbe essere diverso, considerato che si trova nel suo angolino. Spegne nel posacenere il mozzicone della seconda sigaretta, si accorge che il suo tempo è scaduto, ed esce dal parcheggio con movimenti lenti, pronto ad affrontare una serata in casa con la moglie, oppure diverse giri di briscola al bar con gli amici, o quasiasi altra cosa.

  • Ouija board

    I tre amici sono alle prese con una delle prime vacanze in solitaria, senza genitori al seguito.
    Niente di esagerato, giusto un centinaio di km separano la tenda dal controllo, ma la libertà che respirano è forte, indubbiamente. Le regole si riducono ai minimi termini, mangiare, dormire, bere, tutto con proporzioni differenti dal solito. Fanno quello che vogliono, senza pensieri; vanno dove vogliono, le bici sono tante, basta solo allungare una mano.

    Ed è in questo modo che si allontanano dal campeggio, quella sera, molto probabilmente con una scorta di birre al seguito, per evitare di non trovarne in giro. Le pedalate sono leggere, come il loro stato d’animo, senza pensieri, come può esserlo un adolescente in vacanza da solo. La strada è lunga e scarsamente illuminata, ma c’è gente in giro, gente che si muove con lo stesso passo leggero. Le colonie passano lentamente, una dopo l’altra, e pian piano le luci aumentano, appaiono le case, si comincia a sentire il brusìo dei turisti. La meta è vicina, ancora una decina di minuti, e poi sono arrivati.

    L’ora comincia ad essere tarda, e in giro c’è meno confusione rispetto a prima. Camminano con le bici alla mano, nella stretta striscia di cemento che separa gli scogli dalla massa scura delle acque del canale, poi trovano qualche scoglio meno scomodo degli altri e si siedono, attingendo dalle scorte.

    Non è chiaro come venga fuori il discorso, e forse non ha nemmeno importanza, ma da una tasca appare nuovamente quel foglio piegato e ripiegato, scritto a mano, con le lettere dell’alfabeto circondate da un cerchietto.

    “Rifacciamo la seduta?”

    La tavoletta Oujia improvvisata viene stesa alla meno peggio sul cemento, una 200 lire viene nominata cursore e poggiata sul foglio. Non c’è fretta. Le chiacchiere proseguono ancora per un pò, assottigliando le scorte, poi si comincia. La gente, ormai, è defluita, il molo è praticamente deserto, a meno di una coppietta poco più indietro, che bada con interesse ai fatti propri. Tre dita uguali di tre mani diverse vengono appoggiate leggermente sulla monetina/cursore, gli occhi si chiudono, i respiri calano di frequenza ed intensità, l’idea sembra quella di trovare una parvenza di solennità e concentrazione. Ma il sospetto di venire presi in giro dagli altri è molto forte, e i tre si tengono sotto controllo, cercando di non dare nell’occhio, attendendo un cenno che faccia capire che c’è qualcuno che lo fa apposta, a muovere la moneta.

    E formulando questi pensieri, si accorgono, con la lentezza derivante dall’alcool e dalla stanchezza, con stupore e forse qualcosina di più, che la moneta si sposta piano, quasi impercettibilmente, ma che lo fa davvero. Un percorso lento, quello della moneta, seguito da tre paia di occhi sgranati; un percorso che al suo termine sentenzia la parola Onda.

    Poi tutto finisce. Rimane il dubbio, che sfocia in una aggressività benevola verso i reciprochi altri due, aggressività figlia della certezza di esser stato preso in giro. La serata è finita; un ritorno meno leggero dell’andata aspetta il trio, una strada che prima era scarsamente illuminata ora è buia, senza anima viva, affiancata da edifici massicci e tetri. La questione della moneta viene dibattuta per qualche giorno, poi cade nel dimenticatoio adolescenziale.

    Sembra cadere.

    In realtà rimane lì, appena sotto la superficie, a volte intuibile, altre meno, altre no.
    Ma c’è. E può succedere che in una fredda serata d’inverno di una ventina d’anni dopo i tre si riuniscano per un incontro, per rinsaldare una amicizia un pò sfibrata dal tempo e dagli avvenimenti, e che in uno di quei momenti di quiete tra un discorso e l’altro, la fatidica domanda riemerga in superficie.

    “Ok, ma chi cazzo la muoveva, la moneta?”

    Così, senza bisogno di spiegazioni aggiuntive, perchè tutti sanno di che cosa si parla.
    I tre uomini fanno spallucce, incapaci di dare una risposta, e proseguono il giro in macchina.

    [un abbraccio forte a Piero e Daniele]

  • Panico

    Mi sveglio di soprassalto, apparentemente senza un motivo evidente, come ogni tanto accade. Rimango un attimo in attesa di capire se è successo qualcosa, un rumore, un odore, ma niente, mi sono svegliato e basta. Cerco allora di capire che ore sono, giusto per sapere quantificare il tempo residuo per il riposo; mi giro verso la sveglia, ma non la trovo, non vedo le solite cifre luminose. Ruoto su me stesso, pensando di trovarmi girato dalla parte sbagliata, ma niente, non vedo la sveglia.
    Un brivido.
    Mi siedo sul letto, comincio a sentirmi più lucido, voglio capire perchè non c’è più la sveglia. Ma il buio è pesto, gli occhi non ancora adattati, mi dico, non vedo nulla. Cerco l’interruttore della luce che ho sul comodino, poi ci penso, magari lei si sveglia e mi infama, ma cazzo, devo capire.
    Lo trovo. Commuto l’interruttore. Buio. Off. On. Off. On. Buio.
    Altro brivido.
    Passo all’interruttore del lampadario. On. Buio. Off. On. Off. On. Buio.
    No, c’è qualcosa che non va.
    E il sospetto, subdolo, si insinua. Una cosa sciocca, impossibile, ma si insinua. Sono cieco. I brividi si trasformano in un sudore freddo, non sono ancora sveglio del tutto, e mi lascio travolgere dai pensieri. Mi alzo in in piedi, sul pavimento freddo, alla ricerca di una luce, per fugare lo stato d’ansia che comincia a montarmi dentro, mi muovo a tentoni.
    Il bagno. Interruttori. Buio.
    La camera della bimba, ci sono un sacco di lampadine, anche la luce notturna attaccata alla presa. Tutto buio. Percepisco il suo russare leggero. Ma, cazzo, qualcosa non va di certo. Il corridoio. Mi affaccio a dove ci dovrebbe essere la sala. Nessuna luce. Microonde, standby della TV, stereo, niente. Sono quasi in panico, sudo freddo, ho paura. Muovo un passo nella sala, e accade il miracolo. Un rossore, in alto. Per un momento non capisco cosa può essere, poi mi rendo conto: il sensore infrarossi dell’impianto di allarme. Un poco di sollievo, ma ancora i dubbi sul perchè il resto della casa è al buio. Poi, finalmente, mi sveglio del tutto, ragiono, e mi do del coglione. Qualche passo indietro nel corridoio, ancora a tastoni, cerco il quadro elettrico dietro alla porta. Lo conosco a memoria, quindi so dove mettere la mano, sollevando l’interruttore generale, che chissà per quale motivo si era spento.
    Torno a letto, sollevato, e chissenefrega di che ore sono.

  • Insonnia

    E’ tardi, è ormai notte inoltrata, ma quell’accenno di sonno è sparito, e non sembra voler tornare. Una ultima sigaretta, mi dico, ma a metà mi accorgo che non mi va più e la spengo. Rimango fuori un altro pò, guardo nascere una piccola nevicata, anche se poi non è proprio neve quella che cade, sembrano piuttosto briciole di ghiaccio, più dure della neve, me ne accorgo ascoltando il fruscìo che generano cadendo sulle foglie. Lei non c’è, è lontano, nell’altra sua vita. Guardo i frammenti ghiacciati rimbalzare sul lampioncino, ne ascolto il rumore. Poi si alza una folata strana, insistente, nervosa, che sembra convogliare le particelle gelate in un punto imprecisato del giardino. Piccoli vortici sembrano addensare il ghiaccio in uno spazio ben definito, che via via assume i contorni di una figura umana, sfocata, ma riconoscibile.
    “Cosa fai ancora in piedi a quest’ora, tesoro?”
    “Niente, non riesco a prendere sonno”
    “Su, che è tardi, e domani è venerdì!”

    Rientro in casa, mentre un sorriso mi spunta sulle labbra, mi spoglio, mi infilo sotto il piumino. E dormo.