Categoria: racconti

  • Ritmo ipnotizzante

    Banjo or freakout - Locomitiv [BO]

    Il cantante lascia il microfono e lo strumento. Per un attimo sparisce in basso, nelle ombre create dalle luci forti sparate verso il telone bianco, poi si rialza, il busto libero dal peso della chitarra, le mani occupate da un paio di bacchette. Si ferma, guarda gli altri due, alle prese con un ritmo trascinante fatto di rullate impetuose e ritmiche distorte, poi si avvicina al tom-tom libero davanti alla batteria.
    E comincia.
    Batte su quel tom-tom come se dovesse vendicarsi di un torto enorme, batte con una cadenza molto veloce che sembra quasi superare quella creata dagli altri due, batte e segue il movimento delle braccia con tutto il busto come in preda alle convulsioni. Noi lo guardiamo, li guardiamo, siamo in piedi davanti al palco tra altri corpi che ondeggiano, con i bassi che ci massaggiano l’addome. Poi mi accorgo di avere smesso di guardarli, mi accorgo di essere inchiodato a quelle due bacchette che vanno su e giù talmente in fretta da essere una striscia unica di bianco, le braccia che non si capisce quale delle due stia battendo. Riescono a mantenere quel ritmo forsennato per diverso tempo, ci tengono ben incollati, poi all’improvviso stop, silenzio, mani sulle corde e sui piatti per terminare ogni suono. Ecco, in quel momento mi sono sentito cadere.

  • Quer pasticciaccio bello

    Quer pasticciaccio bello nasce come costola [sinistra] del My own private Milano. Dieci fotografi romani, dieci foto della periferia di Roma, dieci scribi di fuori Roma. Per parlare, raccontare o anche solo immaginare la parte più grande e, forse, più complessa di questa città.

    Perché se vi hanno detto che Roma è solo il Colosseo e i sampietrini, beh, vi hanno mentito.

    Frattaglia & co, cose belle dall’Internet. Lo scarichi qui.

  • La libreria

    La libreria è un brulichìo di gente, piena come solo a Natale riesce ad esserlo. Nonostante non sia la mia solita libreria, riesco a distinguere facilmente i diversi tipi di clienti. C’è l’abitudinario, che si muove scattante tra gli scaffali accelerando il passo per raggiungere le sezioni preferite e ignorando il resto. C’è quello con il titolo da regalare bello chiaro in testa, che ignora tutti gli scaffali e si dirige direttamente alla cassa per chiedere disponibilità al’addetta. C’è quello, spaventato e quasi rassegnato, che non sa che titolo regalare e gira per tutti gli scaffali con lo sguardo perso nel vuoto, e alla fine va alla cassa chiedendo un libro qualsiasi, oppure, se ha un po’ più di amor proprio, chiedendo quello più venduto. Io lo so benissimo cosa voglio, però prima passeggio verso le sezioni che non guardo di solito, incuriosito dai titoli e dalle copertine, anche perché la fila alla cassa è chilometrica. Come dicevo, non è la mia libreria preferita, ma una delle quattro che frequento, in zona. Per Natale le alterno, le tre non preferite, a causa di quel mio problema, che poi per me non è un problema ma a vedere le facce della gente che mi sta vicino sembra di si. Guardo di sfuggita la cassa, mi accorgo che la fila è quasi finita e decido che vado.

    “Buongiorno, desidera un pacco regalo?”
    “Si, grazie”

    Le mani della cassiera corrono veloci sul foglio argento lucido, mani che negli ultimi giorni hanno ripetuto gli stessi gesti molte volte.

    “Ci vuole un fiocco?”
    “Si, grazie, blu se ce lo ha”
    “Certamente”

    Una pressione forte sull’adesivo del fiocco, e il pacco è pronto.

    “Ecco il suo pacco, tenga lo scontrino, e ricordi che sostituiamo i regali entro il 31”

    Ci siamo. Ormai ci ho fatto l’abitudine, e non ho più timore di rispondere e di vedere gli certi sguardi.

    “Non si preoccupi, il regalo è per me”

    Come al solito chi mi è vicino si blocca, sento gli occhi che mi fissano, sento i pensieri della gente che cerca di capire, ma non ci do peso, ché tanto ormai ci ho fatto il callo, e per i prossimi Natali sono a posto, ho le altre due librerie nelle quali andare.

    “Grazie, arrivederci e buone feste”

    [postilla: prima che mia mamma chiami i servizi sociali, la storia non è autobiografica. Ma è comunque vera.]

  • Uno due tre, prova microfono

    Mi sono messo di nuovo le cuffiette, e questa volta la vittima è stata il PostSottoLAlbero di Amedeo Balbi, aka Keplero.
    Lo trovate qui, nel Collettivo Voci.

  • Stantio Natale

    “Alè, altro giro, altro regalo”.
    Da quando lei non c’è più si è accorto di parlare spesso ad alta voce, ma non è preoccupato, pensa che alla fine va bene così, un qualcosa per riempire il vuoto. Lei se ne è andata in primavera, in silenzio, serenamente se è possibile, quasi senza voler disturbare. Lui ha passato dei brutti mesi, ma le ultime parole gli sono rimaste ben impresse in testa, e lo hanno aiutato a risalire la china: “Continua a vivere, fallo per me. Oppure ricomincia, è lo stesso. Ma non ti fermare”.
    “Altro giro, altro regalo”.
    Lo ripete, togliendo il foglio del mese di novembre dal calendario per lasciare spazio ad un freddo dicembre, ed eccolo apparire, rosso, in evidenza, il promemoria scritto da lei chissà quando, in gennaio probabilmente. Nove dicembre: “Preparare l’albero!”. Un segno di interpunzione che voleva indicare felicità e allegria, ma che ora pesa come un macigno sulle spalle di lui, e non ce la fa a reggerlo così di colpo, e si piega, e piange, come non faceva da tanto tempo. Poi le lacrime finiscono, si ricompone, e decide che ci proverà da solo, quest’anno, non è sicuro del risultato ma ci proverà.
    Nove dicembre.
    É pronto per cominciare, nervoso ma pronto. Prende fuori dal ripostiglio le scatole, ognuna con una scritta riportante il contenuto, le poggia sul tavolo in cucina, e ritorna a prendere quella più grande, quella con l’albero. Il controllo del contenuto di quelle piccole è positivo: le palle non si sono rotte, le decorazioni sembrano in buono stato, le lucette si accendono, tutte. Poi passa all’albero, e la prima cosa della quale si accorge, aprendo la scatola, è il forte odore di chiuso, di muffa, di stantio. E di colpo si blocca. Gli sembra sbagliato andare avanti, quello che sta per fare non è continuare, non è rifarsi una vita, è un aggrapparsi alle cose vecchie, è un vano tentativo di far rivivere una cosa oramai sepolta. No, lei non sarebbe proprio d’accordo, non è quello che gli ha detto. E si ritrova a sorridere, felice di aver capito, manda un bacio all’aria e reimpacchetta tutto per gettarlo nel patume alla prima occasione, poi prende il telefono e chiama il suo vecchio amico, anche lui vedovo, e organizzano insieme quel viaggio ai Tropici che da troppo tempo è rimasto chiuso nel cassetto.

    [Il mio PSLA 2010. Lo trovate qui assieme ad altri bellissimi contributi. Thank you, Sir Squonk]

  • L’asta della bandiera

    Salgo lentamente i gradini che portano in cima alla collina, il vento che mi scombina i capelli. Le lapidi si inseguono una dietro l’altra, sparendo poco dopo nella nebbia. La nebbia è pesante, mi bagna la pelle, il cappotto, e scherma tutti i suoni. Il rumore reale dei passi sulla ghiaia si combina per un attimo a quello immaginario delle voci straniere dei soldati, poi più nulla, inghiottito dal bianco. Ripenso alla guerra, e mi chiedo se la scena che sto vivendo ne è un possibile metafora: molte lapidi, che vengono via via dimenticate sbiadendo nella nebbia. Poi avvicinandomi alla sommità della collina sento un rumore, come un tintinnìo, che scopro essere prodotto da una delle corde che reggono le bandiere, nelle aste. E tra me e me penso che anche questa potrebbe essere una metafora: è importante che ci sia sempre un qualche tintinnìo che ci tenga svegli ed impedisca di far scivolare nella nebbia dell’oblio la nostra memoria storica.

  • Uno due tre, prova microfono

    Ho scoperto da pochi giorni l’esistenza del Collettivo Voci, e me ne sono subito innamorato. Funziona così: hai un post che ti piace? Lo leggi, ti registri mentre lo fai, e invii l’mp3 a Fatacarabina, che gestisce il tutto, a questo indirizzo.
    Di un’altra cosa sono innamorato, di questa già da un po’, si chiama Cinque Birilli, e l’ha scritta tempo fa l’amico Squonk. Parla di del biliardo, dei personaggi che si aggiravano nelle sale, e chiude con un “C’era una volta”, il pezzo che più sento mio: mi torna in mente la mia, di sala, quella che una volta era un cinema e ora una banca, e mi viene un po’ di nostalgia.
    E quindi via, bando alle ciance, metto la cuffietta, il pdf in fullscreen, registro il tutto, tra incespicamenti e rantoli per prendere fiato; non è bellissimo, ma è fatto con cuore, e ora si trova qui.

  • Gap tecnologico

    Paolo è in piedi in mezzo al camminamento, turno di guardia dalle 20 alle 02. Si concede una sigaretta attento a coprire con la mano la brace come ha visto fare nei film di guerra, e osserva attento la vallata sottostante. Ha ereditato la trincea dalla guerra combattuta da suo nonno negli stessi posti due generazioni addietro; non che non fosse capace di scavarne una nuova, ma c’era già quella, è bastato ripulirla un po’. In basso intravede le luci di alcuni veicoli muoversi nella notte, e più in là il bagliore della città, però non riesce a distinguere se sono amici o nemici ma propende per la seconda e osserva le sue vicinanze per vedere se ci sono tracce della loro presenza. I nemici sono sempre più vicini, o almeno sono queste le notizie che giungono dagli altri gruppi di resistenza. Ormai la comunicazione avviene con il passaparola, Internet è già stata messa sotto controllo da diversi mesi e non la usa quasi più nessuno e sembra proprio che la prossima a finire nelle maglie del controllo sia la rete cellulare; qualcuno manda informazioni al resto del mondo tramite gli SMS al numero di Twitter ma se crolla la rete mobile, addio notizie. In questi momenti pensa a suo nonno, a due generazioni indietro, gente legata alla terra, gente che sapeva procurarsi o costruirsi le cose che servivano, gente il cui rapporto con la tecnologia quasi pari a zero; poi pensa a se stesso pochi mesi prima, internet supermercati e un letto caldo dove dormire, e insomma, gli sembra che questa volta il gap tecnologico tra lui e i nemici sia molto alto, e non si sente tranquillo, per niente. Un rumore da destra lo distoglie dai suoi pensieri, un brivido ma è tutto ok, è il suo compagno venuto a dagli il cambio; si scambiano qualche parola, e c’è una buona notizia, sembra che qualcuno abbia trovato un CB e riesca a farlo funzionare. Un sorriso debole lo accompagna al suo giaciglio, mentre laggiù, nella città, si sente qualche scoppio.

    [Questo racconto lo potete trovare anche qui, assieme a tanti altri bellissimi scritti. Ah, poi queste cose vengono anche lette in giro, sintonizzatevi qui]

    [tags]schegge di liberazione[/tags]

  • Sfortuna

    Sfortuna. Iella. Iattura. Sfiga.
    Ma anche disavventura, infortunio, sorte avversa.
    Oppure sacrificio, perdita, scapito, danno.
    Aggiungendo al danno la beffa, quindi non basta essere sfortunati, bisogna anche definire bene il proprio tipo di sfortuna. La mia personale definizione di sfortuna è “cosa negativa che accade, prevista oppure no”. In trentacinque anni di vita ne ho provate diverse, di sfortune. Come buona parte della gente, del resto. Mi ricordo un periodo, alle superiori, che definii piuttosto sfigato perché nel giro di tre giorni feci quattro incidenti con lo scooter, fortunatamente non gravi per me, un po’ di più per il mezzo. Sempre alle superiori ho provato un altro tipo di sfortuna, non riflessiva questa volta, nel senso che non mi sentivo sfigato, ma gli altri mi additavano come tale: vuoi la passione per il computer, vuoi l’abbigliamento un po’ troppo casuale, i “guarda quello, che sfigato” si sprecavano. Poi, crescendo, ho come l’impressione che il mio metro di giudizio della sfortuna sia variato, spostandosi più verso la sfiga, che è si una dis-fortuna, ma di livello più basso, come “Uff, ma cavolo, non me ne va mai dritta una! Vabbè…”, una cosa poco più alta di un fastidio, ecco. Le sfortune di livello più alto, invece, crescendo sono diventate dolori, drammi, danni; e con queste non c’è “Vabbè” che tenga, queste arrivano, fanno il loro lavoro, e se ne vanno lasciandoti dei segni grossi così. Trattandosi abbastanza spesso di perdite di cose e/o persone, diventa interessante l’etimologia della parola iattura, cioè l’azione che si compiva – compie? – sulle barche all’arrivo di una tempesta, il liberarsi del carico per evitare il naufragio: in entrambi i casi ci sono delle perdite, in entrambi casi c’è il dispiacere per queste, ma sulla barca c’è l’obiettivo di salvarsi, mentre nella vita reale no, si perde e basta. L’educazione alla sfortuna parte da quando siamo piccoli, con i fumetti e i cartoni animati, e i personaggi non baciati dalla dea bendata ci vengono mostrati come simpatici: penso ad esempio a Paperino o al Wile E. Coyote; forse è un modo per indorarci la pillola, più o meno voluto, fatto sta che si impara che non tutto può andare come si desidera che vada, e che questo non deve farci sentire personaggi di serie B. Poi si cresce, e bene o male tutti si viene a conoscenza di Murphy, delle sue implacabili leggi e dell’altissima probabilità che le cose possano girare dal verso sbagliato, rendendo il discorso un poco più serio. E i proverbi e le canzoni e i film, una sorta di memento mori senza soluzione di continuità, un enorme “Guarda che ti avevo avvisato, eh”; ma nonostante tutti questi alert spesso ci si dimentica che la sfortuna ha 10/10 da entrambi gli occhi, e quando ci si sbatte contro si rimane stupiti, e a volte, purtroppo, si sanguina anche un po’. Che sfiga.

    [Il presente è stato letto qui, e potete trovarlo anche qui in versione PDF/ePub/mobi, assieme ad altri bellissimi scritti e disegni]