L’omino della pizza a domicilio che riconosce al volo la tua voce e compila l’ordine come il completamento automatico di Chrome.
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In un mix di fastidio, pessimismo e voltastomaco
C’è questa sorta di filo conduttore al quale sono appesi i pensieri di questa settimana, e l’argomento è lo stesso: le parole, il saperle usare, il sapersi esprimere. Il lavoro che svolgo mi mette a contatto continuamente le persone, loro mi chiamano, io le ascolto e cerco di risolvere i loro problemi. E una percentuale alta di queste persone sembra non essere in grado di usare le parole corrette per esprimere i propri problemi, le proprie necessità: frasi costruite a cazzo di cane, termini usati al posto di altri (no, non sinonimi, proprio parole sbagliate) e altre amenità del genere. A parte il fatto di complicarmi la vita, questa cosa è straziante, mi fa venire la nausea e invocare l’asteroide ogni due per tre. E mi astengo dal parlare di ciò che vedo al di fuori della mia bolla dorata. L’ignoranza è dovunque, non solo sembra essere stata sdoganata ma addirittura sembra sia una cosa figa, quasi da ostentare; e non mi stupisco più di tanto che accadano i fatti di cronaca successi negli ultimi giorni: la gente ignorante la si manipola con troppa facilità, cristo. La cultura è bella, l’esprimersi correttamente è importantissimo, e una frase ben costruita è addirittura sexy, tanto che, ti dirò, l’idea di un congiuntivo azzeccato o la punteggiatura al posto giusto mi stuzzica tanto quanto quella di un pompino. E non c’è niente da ridere.
Buttare?
Hai presente il momento in cui ti senti preso dal sacro fuoco del buttare e vorresti liberarti di un sacco di cose che trovi inutili? È figa sta cosa, ti riempie i giorni, ma mi domando, è meglio avere attorno roba che non serve, oppure avere dello spazio vuoto e un cazzo con cui riempirlo? Boh, ci dormo su.
La matematica del karma
La sensazione è quella di aver chiuso un conto aperto diversi anni fa e di essermi messo in pari con il karma.
Probabilmente questo post potrebbe chiudersi qui, un po’ criptico, un po’ intimista, tanto cazzi miei, ma ho voglia di scrivere ancora. Non è come la chiusura di un cerchio, è più tipo la fase di risalita di una cicloide allungata, che risale in funzione di ciò che si porta dietro ma non sa come proseguirà perché le variabili in gioco sono cambiate (in tutta onestà alla cicloide non interessa il percorso, a lei basta muoversi, me lo ha detto prima). Molto probabilmente va a finire che mando quella mail che avrei dovuto mandare già da un botto di tempo, Grazie, almeno uno dei due ha avuto la forza di dire basta.
Let’s go. [Play]
Anche (*)
(*) da intendersi come congiunzione, non come plurale.
Qualche tempo fa parlavo con un amico del fatto che mi sono accorto di essere diventato qualcosa che somiglia molto ad uno stronzo cinico, e del fatto che questa cosa, quando ci penso, mi stupisca sempre un po’. Lui, mente illuminata, mi dice “Ma Cala, guarda che è normale, quando si sta così, è così che si diventa.”. Secco, senza tanti giri di parole. Poi capita a fagiolo una seduta dalla doc: topic simile, la riduzione ai minimi termini, il rigetto delle seghe mentali e della cavillosità e di chi ne è portatore, l’avere bisogni basici e il soddisfarli in maniera altrettanto basica (cit.) (questo è stato illuminante, tu-sai-chi). Breve introduzione. Le sedute sono delle lunghe chiacchierate relative a quello che mi succede tra un incontro e l’altro; molto spesso accade che l’analisi che faccio su me stesso sia la stessa che fa lei dall’altra parte della scrivania, e dunque un “Massimiliano no, su questo non sono d’accordo con lei.” arriva piuttosto forte, e mi fermo, i gomiti appoggiati al tavolo e le mani a calice sotto il mento, ad ascoltare. Il discorso verteva sulla rudezza e l’essenzialità della forma, e l’affermazione contestata era il mio “va bene così”: lei l’ha presa e l’ha fatta diventare “va bene ANCHE così”. Sembra una modifica da nulla, una parola aggiunta lì per lì, ma sotto c’è molto. Non so chi abbia ragione in questo caso, ma ogni tanto ci rifletto, e comunque le ho detto “Cazzo, ma lo sa che lei è davvero brava?” Grasse risate da entrambi i lati del tavolo, “La saluto, ci vediamo tra un paio di mesi, buona giornata.”.
Una considerazione estemporanea sul sonno
Durante le ultime due notti ho dormito male. Vuoi per il caldo nella stanza, vuoi per la treccia di fili e il borsello a lato, sono state due notti movimentate, un continuo rotolarmi da una parte e dall’altra. Ieri sera, ad un certo punto, durante l’ennesimo rotolamento mi sono ritrovato a formulare, piuttosto lucidamente, quasi da sveglio, un pensiero. “Cosa cazzo ti giri a fare da questa parte? Ci hai già provato ed è andata male”. Non mi era mai capitato. Poi vabbè, ho proseguito per non interrompere il ritmo di rotolamento.
Il piacere delle piccole cose
Questo Sangiovese Novello, che ha superato ogni aspettativa.
Un abbraccio della madonna.
La canzone giusta quando accendi la radio dopo il lavoro.
L’esplosione di un sorriso scatenata da un altro sorriso esplosivo.
L’inchiostro su mani e braccia che si muove in una danza quasi erotica intanto che prepari da mangiare.
Ma soprattutto il caldo alla pancia che ti lasciano le piccole cose quando accadono.“Code is poetry”
Della frase mi interessa l’intendere la scrittura di programmi come un atto creativo.
Ditemi chi devo ringraziare per l’essermi appassionato alla programmazione, tanti anni fa, e lo farò. La scrittura di programmi è un angolo tranquillo nel quale rifugiarsi, ogni tanto. Il fine non è importante, anzi a volte nemmeno c’è, si scrive codice e basta, fine a se stesso, per il puro atto terapeutico del farlo. È anche quel piccolo massaggio all’ego per chi, come me, non ha altre velleità creative (o per lo meno ne ha altre, ma che non danno la stessa soddisfazione). Costruisco un qualcosa, con le mie mani, secondo le mie regole, regole che possono seguire una logica più o meno discutibile, senza dubbio, ma è un qualcosa di cui conosco perfettamente il funzionamento, e al quale posso metter mano per correggere un eventuale bug.Worst case scenario
C’è questo gioco malato nel quale mi trovo spesso, senza sapere come ci sono capitato. E non posso uscirne, devo continuare a giocare fino alla fine, comunque vada. Il gioco è pensare ad una situazione, immaginarne il caso peggiore, e ingegnarmi a trovare la soluzione migliore. Il problema non è il gioco, ché dal punto di vista psicologico mi pare più che lampante, il problema è quando non trovo la soluzione.