Mi sono messo di nuovo le cuffiette, e questa volta la vittima è stata il PostSottoLAlbero di Amedeo Balbi, aka Keplero.
Lo trovate qui, nel Collettivo Voci.
Tag: racconti
Stantio Natale
“Alè, altro giro, altro regalo”.
Da quando lei non c’è più si è accorto di parlare spesso ad alta voce, ma non è preoccupato, pensa che alla fine va bene così, un qualcosa per riempire il vuoto. Lei se ne è andata in primavera, in silenzio, serenamente se è possibile, quasi senza voler disturbare. Lui ha passato dei brutti mesi, ma le ultime parole gli sono rimaste ben impresse in testa, e lo hanno aiutato a risalire la china: “Continua a vivere, fallo per me. Oppure ricomincia, è lo stesso. Ma non ti fermare”.
“Altro giro, altro regalo”.
Lo ripete, togliendo il foglio del mese di novembre dal calendario per lasciare spazio ad un freddo dicembre, ed eccolo apparire, rosso, in evidenza, il promemoria scritto da lei chissà quando, in gennaio probabilmente. Nove dicembre: “Preparare l’albero!”. Un segno di interpunzione che voleva indicare felicità e allegria, ma che ora pesa come un macigno sulle spalle di lui, e non ce la fa a reggerlo così di colpo, e si piega, e piange, come non faceva da tanto tempo. Poi le lacrime finiscono, si ricompone, e decide che ci proverà da solo, quest’anno, non è sicuro del risultato ma ci proverà.
Nove dicembre.
É pronto per cominciare, nervoso ma pronto. Prende fuori dal ripostiglio le scatole, ognuna con una scritta riportante il contenuto, le poggia sul tavolo in cucina, e ritorna a prendere quella più grande, quella con l’albero. Il controllo del contenuto di quelle piccole è positivo: le palle non si sono rotte, le decorazioni sembrano in buono stato, le lucette si accendono, tutte. Poi passa all’albero, e la prima cosa della quale si accorge, aprendo la scatola, è il forte odore di chiuso, di muffa, di stantio. E di colpo si blocca. Gli sembra sbagliato andare avanti, quello che sta per fare non è continuare, non è rifarsi una vita, è un aggrapparsi alle cose vecchie, è un vano tentativo di far rivivere una cosa oramai sepolta. No, lei non sarebbe proprio d’accordo, non è quello che gli ha detto. E si ritrova a sorridere, felice di aver capito, manda un bacio all’aria e reimpacchetta tutto per gettarlo nel patume alla prima occasione, poi prende il telefono e chiama il suo vecchio amico, anche lui vedovo, e organizzano insieme quel viaggio ai Tropici che da troppo tempo è rimasto chiuso nel cassetto.[Il mio PSLA 2010. Lo trovate qui assieme ad altri bellissimi contributi. Thank you, Sir Squonk]
L’asta della bandiera
Salgo lentamente i gradini che portano in cima alla collina, il vento che mi scombina i capelli. Le lapidi si inseguono una dietro l’altra, sparendo poco dopo nella nebbia. La nebbia è pesante, mi bagna la pelle, il cappotto, e scherma tutti i suoni. Il rumore reale dei passi sulla ghiaia si combina per un attimo a quello immaginario delle voci straniere dei soldati, poi più nulla, inghiottito dal bianco. Ripenso alla guerra, e mi chiedo se la scena che sto vivendo ne è un possibile metafora: molte lapidi, che vengono via via dimenticate sbiadendo nella nebbia. Poi avvicinandomi alla sommità della collina sento un rumore, come un tintinnìo, che scopro essere prodotto da una delle corde che reggono le bandiere, nelle aste. E tra me e me penso che anche questa potrebbe essere una metafora: è importante che ci sia sempre un qualche tintinnìo che ci tenga svegli ed impedisca di far scivolare nella nebbia dell’oblio la nostra memoria storica.
Uno due tre, prova microfono
Ho scoperto da pochi giorni l’esistenza del Collettivo Voci, e me ne sono subito innamorato. Funziona così: hai un post che ti piace? Lo leggi, ti registri mentre lo fai, e invii l’mp3 a Fatacarabina, che gestisce il tutto, a questo indirizzo.
Di un’altra cosa sono innamorato, di questa già da un po’, si chiama Cinque Birilli, e l’ha scritta tempo fa l’amico Squonk. Parla di del biliardo, dei personaggi che si aggiravano nelle sale, e chiude con un “C’era una volta”, il pezzo che più sento mio: mi torna in mente la mia, di sala, quella che una volta era un cinema e ora una banca, e mi viene un po’ di nostalgia.
E quindi via, bando alle ciance, metto la cuffietta, il pdf in fullscreen, registro il tutto, tra incespicamenti e rantoli per prendere fiato; non è bellissimo, ma è fatto con cuore, e ora si trova qui.Gap tecnologico
Paolo è in piedi in mezzo al camminamento, turno di guardia dalle 20 alle 02. Si concede una sigaretta attento a coprire con la mano la brace come ha visto fare nei film di guerra, e osserva attento la vallata sottostante. Ha ereditato la trincea dalla guerra combattuta da suo nonno negli stessi posti due generazioni addietro; non che non fosse capace di scavarne una nuova, ma c’era già quella, è bastato ripulirla un po’. In basso intravede le luci di alcuni veicoli muoversi nella notte, e più in là il bagliore della città, però non riesce a distinguere se sono amici o nemici ma propende per la seconda e osserva le sue vicinanze per vedere se ci sono tracce della loro presenza. I nemici sono sempre più vicini, o almeno sono queste le notizie che giungono dagli altri gruppi di resistenza. Ormai la comunicazione avviene con il passaparola, Internet è già stata messa sotto controllo da diversi mesi e non la usa quasi più nessuno e sembra proprio che la prossima a finire nelle maglie del controllo sia la rete cellulare; qualcuno manda informazioni al resto del mondo tramite gli SMS al numero di Twitter ma se crolla la rete mobile, addio notizie. In questi momenti pensa a suo nonno, a due generazioni indietro, gente legata alla terra, gente che sapeva procurarsi o costruirsi le cose che servivano, gente il cui rapporto con la tecnologia quasi pari a zero; poi pensa a se stesso pochi mesi prima, internet supermercati e un letto caldo dove dormire, e insomma, gli sembra che questa volta il gap tecnologico tra lui e i nemici sia molto alto, e non si sente tranquillo, per niente. Un rumore da destra lo distoglie dai suoi pensieri, un brivido ma è tutto ok, è il suo compagno venuto a dagli il cambio; si scambiano qualche parola, e c’è una buona notizia, sembra che qualcuno abbia trovato un CB e riesca a farlo funzionare. Un sorriso debole lo accompagna al suo giaciglio, mentre laggiù, nella città, si sente qualche scoppio.
[Questo racconto lo potete trovare anche qui, assieme a tanti altri bellissimi scritti. Ah, poi queste cose vengono anche lette in giro, sintonizzatevi qui]
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Lo straniero
L’uomo apre le porte del locale con decisione. Le porte rispondono con un cigolìo, tipico delle cose che non filano lisce come l’olio. L’uomo si prepara ad essere osservato, squadrato da capo a piedi, giudicato, perché lì lui è lo Straniero; entra, e per un attimo, uno di quelli lunghi, il tempo si ferma, i bicchieri a mezz’aria, le mani bloccate appoggiando sul tavolo una carta forse vincente. L’uomo si dirige verso il bancone, il petto gonfiato in precedenza per sostenere gli sguardi pesanti, penetranti degli avventori, e fissa dritto negli occhi il barista preparandosi a rispondere al suo volto interrogativo. Imposta la voce prima di pronunciare la frase con la quale rivendicare il suo diritto di trovarsi lì. “Scusi, dove è il bagno?”
